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La Festa dell'Uva: origini e significati odierni
di Tonino Santoriello
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Riccia è un piacevole centro del Molise, immerso in un ambiente incontaminato e ricco di boschi, con la presenza nell'abitato di opere artistiche ed architettoniche di importante valore culturale e storico. Il paese è l'unico della regione a conservare e tramandare da molti anni la tradizione della "Sagra dell'Uva" che viene tenuta la seconda domenica di Settembre.
L'origine della Sagra, nella quale non è escluso scorgere sopravvivenze dei riti bacchici delle feste Meditrinalia della Roma pagana, è da collocare nei primi anni Trenta. Proprio nel 1930 il regime fascista disponeva che "Feste dell'Uva" fossero svolte in tutti i comuni d'Italia. Anche a Riccia la direttiva del governo venne messa in pratica, ma non per quell'anno di cui si cantarono più i nefasti che i fasti. Un poeta locale così infatti si esprimeva durante una maitenate, scherzoso canto augurale con accompagnamento musicale che si eseguiva la notte di San Silvestro: "Anne vécchie, anne Trente/stie fenenne finalmente,/Tu ce ha fatta passà vaie/ che 'nze punne scurdà maie:/Tarramòte, mala annate/ c'enne tutte salutate/ pure i solde so fenute/pe 'lli duie Banche fallute" (Anno vecchio, anno Trenta/stai finendo finalmente,/Tu ci hai fatto passare guai/che non si possono più scordare/Terremoto, cattiva annata [agricola]/ci hanno entrambi salutato/anche i soldi sono finiti/per quelle due Banche fallite). Con queste premesse ben si comprende che i festeggiamenti fossero rimandati a tempi migliori, come accadde. La prima edizione della festa si tenne infatti nel 1932 per continuare fino al 1939 quando venne interrotta dalla guerra mondiale. Alcune vecchie foto ci consegnano istanti di una celebrazione non dissimile da quelle che si svolgevano in altri luoghi del Regno. Giovanette vestite da pacchiane con cesti di vimini stracolmi di uva, carri addobbati da foglie e tralci di vite, e, immaginiamo, canti, suoni e distribuzione di vino. Un rosso locale, robusto e denso, che, come amavano ripetere gli anziani, colorava bicchieri, bocca e budella, proveniente da un vitigno ormai quasi scomparso: a saibella. Al principio degli anni '50 la festa, anche se mantenuta, aveva subito delle modifiche. Era ridotta, infatti, ad una semplice offerta di tipo devozionale dei prodotti viticoli fatta, ai primi di ottobre, nella chiesa del Rosario da parte dei fedeli; prodotti che, in canestri, venivano trasportati con gli asini dalle campagne. Per le strade del paese, inoltre, ragazze e ragazzi in abiti folcloristici distribuivano dell'uva. Un salto di qualità veniva compiuto soltanto alla fine degli anni '60. Sotto la direzione di un apposito Comitato creato per l'occasione, nel quale attiva era la presenza del parroco della Chiesa del Rosario, don Ciccio Viscione, la festa veniva ripresa come un tempo, con la novità di anticiparla rispetto a quella della Madonna del Rosario. In questo modo si garantiva alla cerimonia una propria autonomia dandogli anche una specifica denominazione: "Sagra dell'Uva". La data era fissata per la prima metà del di settembre e già dai mesi precedenti, i componenti del comitato iniziavano un'opera di sensibilizzazione, specialmente nelle campagne, per fare allestire dei carri allegorici da trainarsi con i trattori.
La sfilata dei carri, prima molto piccoli nelle dimensioni e semplici nella fattura, poi sempre più grandi e sofisticati negli addobbi viticoli e nelle composizioni figurative, è diventata il momento centrale della festa. Tutta la cerimonia ruota intorno al "carro dell'uva", alla sua preparazione, alla sua preminente collocazione simbolica nel rituale festivo, al suo doppio ruolo di attrazione scenica e di mezzo a cui attingere a piene mani quanto da esso viene offerto. Su di essi uomini e donne in abiti contadini mimano scene di vita e di lavoro tradizionali in ambienti agricoli e domestici abilmente ricostruiti, vengono, inoltre, messi in mostra strumenti della civiltà rurale non più in uso, si suona, si canta e, soprattutto, si cucina. Il carro si tramuta in un'arca mobile zeppa di prodotti tipici. Non viene distribuita solo uva e vino, ma ogni genere di vivande, cucinate al momento o preparate prima, dalle quali si spandono buoni odori che rimandano ai sapori di una volta. In un'atmosfera allegra, pregna del penetrante profumo dell'uva e del vino versato, i carri percorrono le strade dell'intero centro abitato, preceduti da un corteo di gruppi folk e sbandieratori, attesi, seguiti ed inseguiti da una folla vociante che interagisce con i protagonisti della cerimonia e diventa parte integrante della cerimonia stessa.
Ricercare i significati, palesi o occulti, della festa oggigiorno è operazione interpretativa complessa. Riccia sebbene abbia un'antica tradizione legata al consumo del vino - le venti e passa "cantine" esistenti in paese sono state mitizzate e addirittura elencate in un canto popolare quasi a volerne fissare il ricordo e i proprietari ('Nduntille, Panuntille, Fasolino, Biancorosso, 'a Cima, 'Ngè, per citarne alcuni) - ha una produzione vinicola esigua, dovendo provvedersi all'esterno della materia prima per poi trasformarla in loco; operazione comunque praticata dalla maggioranza delle famiglie residenti.
Scartata quindi l'ipotesi promozionale, la sagra non può essere ricondotta neanche a marcate caratteristiche devozionali - seppure esistite - in quanto da molto tempo la sua laicità e sempre più evidente e la presenza religiosa è limitata all'immagine della Madonna del Rosario che ogni carro deve, da regolamento, esporre. Sembra dunque avvalorata l'opinione di taluni osservatori che equipara la "Sagra dell'uva" ad una manifestazione di tipo carnascialesco. Del Carnevale, la sagra di Riccia serba, infatti, gli elementi caratteristici principali: l'inversione dei ruoli, il camuffamento dei partecipanti (anche se a tema predefinito), il consistente consumo di beni alimentari, il riso, i lazzi. L'intera manifestazione, poi, pur conservando una forma di competizione - una sorta di gara tra le varie contrade concorrenti alle quali va attribuito un premio in denaro a scalare per tutte - la ridimensiona alquanto affidando la scelta dei carri più belli ad una improvvisata giuria composta, lo stesso giorno, da persone forestiere intervenute alla festa. Sopravvive, invece, come cosa più importante, se non unica, - nonostante l'impegno e il tanto lavoro profuso che non può essere quantificato né compensato con nessuna somma di denaro - la fortissima volontà di partecipazione collettiva. Una partecipazione da cui scaturisce quella pratica dello stare insieme, del dare senza ricevere, della schietta e solidale accoglienza, patrimonio della civiltà contadina e che è alla base delle nostre comuni radici, modello per il presente, stimolo per il futuro.